Intervista a Luca Zorloni
Abbiamo incontrato Luca Zorloni, giornalista e responsabile area digital di Wired Italia, in occasione dell’uscita del suo primo romanzo “Il paese più bello del mondo” per i tipi di bookabook.
Un romanzo che possiamo definire distopico e che ci ha dato tantissimi spunti di riflessione.
Ciao Luca, hai pubblicato il tuo primo romanzo “Il paese più bello del mondo”: quando è nata l’idea di questa storia?
“Il paese più bello del mondo” nasce intorno al 2021 in occasione di una gita a Venezia con con mio marito, durante la quale, passeggiando per le calli veneziane, vedendo la ressa di turisti, l’infilata di negozi con il souvenir tutti uguali, tutti pacchiani, e di contro il centro di Venezia, che esalta lo spirito, l’anima e la storia della città, mi sono detto: mancano solo i figuranti in costume d’epoca e il parco a tema è servito. Da qui l’idea di narrare un’Italia in cui, per superare la crisi economica, il governo tramuta i centri storici delle città d’arte in parchi di divertimento.
Il romanzo si articola su un meccanismo alla “what if”: cosa succederebbe se chi dice che l’Italia dovrebbe vivere del suo “vero” petrolio, il turismo, mettesse in pratica la sua idea? Tante volte, per via del mio lavoro di giornalista, mi è capitato di sentire politici, esponenti delle associazioni industriali, persone con una rilevanza pubblica dire: “L’Italia è uno scrigno di cultura e il turismo è il nostro petrolio”.
È una frase fatta, ovviamente, ma che nasconde una visione distorta della realtà e mi ha portato a dubitare che questa possa essere veramente una soluzione, un’aspirazione auspicabile, pur con tutte le buone intenzioni di valorizzare i nostri beni culturali e di creare occasioni di fare impresa. Da un lato perché non prende atto del fatto, ormai potremmo dire sotto gli occhi di tutti, che il turismo può essere insostenibile, specie se condotto con numeri che non sono quelli adeguati alla natura di beni fragili, come per esempio a Venezia, Firenze e tante città nel mondo. L’ultimo caso eclatante è quello di Barcellona e delle proteste contro i turisti.
Dall’altro perché esprime l’atteggiamento di un paese ripiegato su se stesso, sul suo passato, verso la tradizione e incapace di slanciarsi verso il futuro. Per esempio, perché non ripensare Venezia nell’ottica di una città laboratorio per studiare e affrontare la crisi climatica, data la fragilità della sua esposizione all’innalzamento del livello dei mari, anziché parlarne solo come di una meta turistica unica al mondo?
Non che sperimentazioni del genere non esistano, ma sono fagocitate dal racconto dell’Italia Grand Tour 4.0. Queste sfumature, che io spesso ho percepito nei discorsi pubblici, ma che in qualche modo non sono mai potute entrare a pieno titolo nei miei articoli, perché non avevano la pertinenza del fatto da riportare giornalisticamente parlando, mi hanno lasciato una sorta di amaro in bocca, che io ho rimasticato quando Venezia mi ha acceso le prime scene del libro e mi sono servite per costruire l’orizzonte largo, il contesto in cui far crescere la storia, e per esercitare una critica complessiva e articolata a un atteggiamento decadente e reazionario, più ampio e radicato del solo culto del turismo, che temo pregiudichi lo sviluppo sociale e l’innovazione del nostro paese. Il passato come rappresentazione plastica del vivere di rendita, del culto della tradizione, del passatismo elevato a bussola strategica. L’eliminazione della tecnologia dai centri storici, per esempio, che nel libro viene narrata come tattica per conservare l’illusione di una autenticità del passato per i turisti, costringe i cittadini a gravi rinunce ed è una metafora del rifiuto cieco verso il futuro e l’innovazione per non affrontare le sfide che essi comportano.
Perché hai scelto il genere distopico?
Ho scelto il genere distopico per tre ragioni. La prima è affettiva: è un genere che mi piace molto, che leggo volentieri, a partire dal capostipite per eccellenza del genere, quindi 1984 di Orwell (al quale sono anche anagraficamente legato), e fino alle svariate declinazioni, dalle più fantascientifiche alle più politiche.
La seconda ragione è che mi sembrava il più adatto a trasferire quell’aspetto di fondo di cui facevo riferimento nella risposta precedente, ovvero quella sensazione di ripiegamento, di incapacità di proiettarsi verso il futuro, di ricerca spasmodica di un passato, che però non è un passato sano, ma è una proiezione distorta, manipolata.
Infine, trovo che il genere si avvicini molto anche al mio tono di voce come giornalista, che è quello di un osservatore esterno critico della politica e di un indagatore di grane. Se con il mio lavoro giornalistico racconto l’attualità e i fatti per ciò che sono, la distopia mi ha consentito di proiettare questa lente in un contesto assoluto, sciolto da ogni limite, lasciandomi libero di immaginare pur senza tradire lo spirito critico e, al tempo stesso, senza rimanere troppo impigliato nei vincoli e nelle linee guida della mia professione.
Se avessi scritto un libro ambientato nell’attualità, temo che anche per effetto della mia inesperienza come scrittore sarebbe rimasto troppo condizionato dallo sviluppo del mio lavoro, forse un po’ prigioniero. In questo modo, invece, ho fatto tesoro degli aspetti più utili, ma al tempo stesso mi sono anche potuto discostare, ho potuto lavorare di fantasia (severamente vietato, nella cronaca) e questo mi ha molto entusiasmato.
Chi è Luca Zorloni
Coordina l’area digitale di Wired Italia, la più influente testata dedicata alla tecnologia. Giornalista di inchiesta, si occupa dell’intreccio tra economia, innovazione digitale e politica, denunciando sprechi di denaro pubblico, abusi di dati e tendenze di business. Ha coperto grandi eventi internazionali e interviste con leader globali e menti visionarie del mondo tech. Il Paese più bello del mondo è il suo romanzo d’esordio.